Francesco Desogus

SPENDING REVIEW ITALIA? CRASH?

Da qualche tempo il lessico burocratico e normativo usa sempre più spesso esotismi d’oltralpe. Prima c’erano i francesismi, oggi domina l’inglese. Che sia un effetto della globalizzazione oppure mostrarsi al passo col mondo, non sta a me dirlo, anche se preferisco l’italianissimo “tramezzino” ad un indescrivibile “sandwich”.
Tra queste “new entry” abbiamo la locuzione di montiana memoria “spending review”, che identifica una serie di norme in costante evoluzione, finalizzate alla riduzione della spesa pubblica. Per dare peso e serietà alla faccenda vennero incaricati economisti come Carlo Cottarelli e Diego Perotti. Sappiamo come andò a finire per entrambi, non so di quanto usciti malconci dal terreno scivoloso della spesa pubblica.
Ma ad oggi come siamo messi? Sta andando come voluto? Le solite fonti (Istat, Banca d’Italia e Ministero dell’economia, ecc.) offrono un quadro in direzione opposta: si spende di più.
1) La spesa pubblica dell’intera macchina statale e locale oggi ammonta a circa 830 miliardi di euro, con questa composizione:
40% – prestazioni sociali (di cui 31% sono pensioni)
20% – stipendi dipendenti pubblici
16% – acquisti di beni e servizi
8% – interessi passivi (titoli di stato ed altre obbigazioni)
8% – spese in conto capitale (le opere pubbliche)
8% – altre spese correnti (qui rientrano anche i miliardi della quota annuale di sostentamento italiano alla UE)
2) Grazie a norme mirate dal 2014 la spending review ha portato risparmi per 32 miliardi. Tuttavia, nello stesso periodo le spese sono aumentate di 33 miliardi. Infatti, solo per il 2017 a fronte di una riduzione della spesa pari a 7,7 miliardi, ci sono aumenti di spesa di ben 13,4 miliardi, con saldo pari a 5,7 miliardi di euro da sborsare in più.
Questo è solo l’esito finale di una spending review fallimentare e paradossale, fatta di tagli orizzontali e cruenti che non hanno risparmiato la scuola, la sanità, gli enti locali e via elencando.
Le difficoltà che si incontrato per giungere ad un vero risparmio sono molteplici.
Pensiamo cosa oggi porta a bordo il carrozzone Italia dall’avvento del “federalismo” di inizio millennio: oltre ottomila aziende partecipate di comuni, province e regioni.
Sono società di varia natura (dalla farmacia comunale alla azienda trasporti, dalla raccolta rifiuti alla società servizi informatici, ecc.)
Se a ciò si aggiunge che per circa il 25% di partecipate sia chiara a pochi intimi la funzione e la necessità (alcune hanno come “mission” aziendale – vai di inglesismo – generiche consulenze) il quadro è più grigio che mai.
Sfoltire le partecipate sicuramente ridurrebbe notevolmente la spesa pubblica, soprattutto in ambito locale. Ma fino ad un certo punto, perchè certi servizi dovranno essere garantiti ricorrendo al mercato e, l’aspetto forse più dolente, il sistema Italia si ritroverebbe con migliaia di disoccupati in più sulla strada, il personale delle società dismesse che graveranno sui fondi delle politiche sociali, voce principale della spesa statale complessiva.
Scenari futuri? E’ presto per dirlo perchè si tratta di effetti e soluzioni strutturali a medio-lungo termine. Tuttavia, il Ministero Economia e Finanze offre degli spunti preoccupanti se analizziamo la situazione degli altri paesi europei. Dappertutto la spesa pubblica cresce, quindi significa più servizi, infrastrutture, sostegno al reddito, politiche sociali e sanitarie a favore dei cittadini.
Come parametro si usa l’incremento % sul PIL dal 2009 al 2016 al netto degli interessi.
Al primo posto Lussemburgo con un +35,2. Più giù in classifica Germania (+21,7) e Francia (+15,2). Anche l’Italia, come accennato, spende di più e si attesta +2, valore che evidentemente non deriva dalla spending review tale e quale che stringe sempre più la cinghia a tutti. Volete un esempio: il famoso bonus di 80 euro.
In questo periodo, 2009-2016, la Spagna è “virtuosa” col suo -6,5, Portogallo -6,6, Irlanda -10,8. Drastica la Grecia: -27,9 Questi ultimi sono i famosi paesi riuniti con l’acronimo dispregiativo “PIGS” (trad. maiali) messi all’indice dalle agenzie di rating e del comparto finanziario mondiale perchè inaffidabili e sull’orlo del “default” (insolvenza per chi ama ancora la lingua italiana). Altrove però compariva anche una seconda “I”, quindi PIIGS, chiaramente riferita all’Italia…

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