Francesco Desogus

Dicono “Ladri di un lavoro già precario”

Così nel sentire comune perchè il dramma dell’immigrazione crea in tanti italiani, e non solo, una lotta personale di coscienza. Allora quel sentimento di solidarietà umana, insito in tutti noi, va a cozzare con lo stato di necessità in cui versano tante famiglie italiane, procurato non solo dalla crisi economica mondiale ma, soprattutto, dalla trasformazione dei modelli economici e sociali che stanno attraversando le nazioni cosiddette “avanzate”.

La produzione dei beni richiede sempre meno manodopera e più automazione e, dove non si può fare a meno della manualità umana, si sfruttano le nazioni, da taluni dette “emergenti”, dove la componente costo del lavoro è irrisoria. E’ la ferrea legge della competitività che è solo minimamente toccata dalla qualità del prodotto. Così magari indossi Zara o calzi Nike e, seppur consapevole dei chiaroscuri di chi davvero ha confezionato il prodotto in qualche laboratorio distante migliaia di chilometri, passeggi soddisfatto dei tuoi acquisti.
Il benessere o, se preferite, il “mondo perfetto”, l’Eden dei tuoi sogni, oggi giunge via web o via satellite in ogni angolo del mondo. Sono paradisi aggiornati in tempo reale, inequivocabili, osservati con stupore e, alla fine, con desiderio. Ti rendi conto che esiste un mondo completamente diverso dal fetore e dalla miseria che respiri in Somalia o in Eritrea. Oppure, se ci metti una guerra civile senza via di uscita, non hai altra scelta che rassegnarti oppure fuggire da quel destino drammaticamente segnato.

E’ una storia che si ripete, come questa foto vecchia un secolo, di migranti italiani che cercano fortuna e miglior vita altrove. Si possono fare tanti paragoni col passato ma c’è una enorme differenza: allora servivano braccia, tante braccia. Il settore primario, l’agricoltura, e secondariamente le miniere e le prime catene di montaggio dell’industria nascente, erano la voce principale, se preferite, il grosso del PIL di ogni nazione. Oggi le braccia le cercano in India, Cina, Pakistan, ecc. delocalizzando le produzioni per i motivi già detti.
Di fronte a questo dramma umanitario non siamo pronti e, forse, non lo saremmo mai. Più che affrontarlo oggi lo subiamo. Dobbiamo cambiare approccio e visione, agendo in particolare alla fonte del problema, ovvero far sviluppare e sostenere le economie povere dei luoghi di origine. Il che, beninteso, non vuol dire creare e sfruttare altra manovalanza a buon prezzo a favore del solito magnate in panciolle. Significa creare servizi: dalla sanità diffusa all’acqua per irrigare, da una moderna formazione scolastica a reti viarie decenti e tutto ciò che servirà a migliorare il benessere, che non ti faccia sentire l’ultimo degli umani, preservando la cultura e le tue tradizioni.

E’ un percorso lungo e costoso, che richiede la piena collaborazione di tutti gli stati investiti dal fenomeno, tutti quelli che sono oggetto di meta finale dei migranti.
All’orizzonte purtroppo poco o nulla, in termini collaborativi, e così, di fatto, il grosso del problema grava sulle spalle degli stati di confine, come è l’Italia.
Dalla disperazione di migliaia di persone qualcuno ha trovato giovamento, si è fatto il suo business, fino a qualche anno fa impensabile. Ma non c’è alcuna compensazione: qualche disoccupato italiano in meno, tanti inoccupati di altre etnie per strada, sbandati e confusi, irrisoria integrazione sociale, malessere diffuso, tolleranza che scema nel tempo.

C’è chi da tempo cavalca certi umori sul filo del razzismo, altri che lo fanno proprio uno strumento di battaglia con un consenso più o meno celato. Concetto forse assurdo qui in Sardegna ma non così in buona parte del resto d’Italia.

Oggi far finta di niente o volgere lo sguardo altrove è pura idiozia perchè, prima o poi, chiunque sarà toccato direttamente da questa tragedia umanitaria.

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